LEONARDO CUMBO Carlo Melloni (2000)
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Cumbo potrebbe essere definito lo scultore della banalizzazione dei nodi esistenziali. Che non e’ un modo riduttivo di fare arte, bensi’ e’ un procedimento sintattico per dare dignita’ artistica a utensili della vita quotidiana, conferendo ad essi valenze plastiche, dopo averli sottratti al bric-a’-brac degli attrezzi d’uso comune. C’e’ un termine, coniato da uno storico dell’architettura che rende bene il significato di questo traslato (funzionale): e’ adhocim (dal latino ad hoc= idoneo per questo). A differenza dei popartisti americani, che con le bottiglie di Coca-Cola, i barattoli di pomodoro Campbell e i “rifacimenti” di Oldemburg hanno percorso la medesima strada, non andando al di la’ della mera evocazione di uno scaffale di un supermarket, Cumbo utilizza i suoi torchi, le sue trottole e le sue carriole in contesti plastici apparentemente lucidi, ma in realta’ carichi di situazioni traumatiche. Soprattutto quando sono presenti volti o lacerti umani (spesso una mano), le sculture dell’artista siciliano vanno a collocarsi in una temperie espressiva, in cui la metafora del quotidiano (come ripetizione e banalizzazione, appunto degli atti consueti) diventa divaricazione tra l’essere qui e ora e l’essere in una dimensione metafisica, in attesa che l’evento si compia...
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