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PUPI RI ZUCCARU
Una
tradizione storica tipicamente siciliana in via di estinzione...
I “pupi di zucchero” sono balocchi colorati
donati dai cari defunti ai bambini, i quali trovavano al loro risveglio, la mattina del 2 Novembre per la "festa" dei morti.
L’ipotesi
di confrontarsi con un materiale ed una tecnica così
poco usuali per uno scultore, ha letteralmente catturato l’interesse
di noi organizzatori intenzionati ad inventare un’originale manifestazione artistico-culturale
che rivalutasse una tradizione tipicamente siciliana oramai quasi dimenticata. Nasce così “S-Culture di zucchero” che si svolge a Caltanissetta
nel mese di Novembre dal 2004. La mia idea primordiale, condivisa con l'arista Giuseppe Rubicco e sviluppata assieme al docente di Storia
e filosofia, fotografo Salvatore Farina, ha prodotto un evento che ha immediatamente
destato la curiosità e l'interesse di numerosi artisti
italiani e stranieri desiderosi di conoscere le potenzialità
tecniche ed espressive dell'originale materiale 'plastico':
lo zucchero colato e la partecipazione di un vastissimo pubblico.
Leonardo Cumbo
Laboratorio
Rosciglione - Palermo
(foto di Salvatore Farina)
Pupaccena
(foto di Melo Minnella)
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I PUPI DI ZUCCHERO:
"Fossili viventi" delle nostre grandi civiltà del passato
“S-Culture
di zucchero” ha riscosso un enorme successo. Giornali
e televisioni regionali e nazionali ne hanno diffuso ampiamente
la notizia. In piazza Garibaldi, davanti alla fontana del
Tripisciano, una moltitudine costante di visitatori ha potuto
assistere alle spettacolari fasi della produzione delle così
dette “pupaccene”. Gli artisti scultori provenienti
da varie regioni d’Italia e dall'estero si sono cimentati
a creare forme nuove proponendo suggestivi frammenti della
propria personalità; i maestri dolciari hanno messo
a disposizione la loro preziosa esperienza e si sono esibiti
nell’interpretazione delle leggendarie forme legate
alla tradizione.
Questa inedita e straordinaria sinergia è nata per
sostenere una causa molto importante: richiamare l’attenzione
e lanciare l’allarme nei confronti di una tradizione
in via di estinzione. L’arte di preparare e regalare
i pupi di zucchero sta infatti scomparendo. Al loro posto,
negli ultimi decenni, dilagano le zucche di halloween. Ma
l’aspetto più triste è constatare che
oltre alle statuette di zucchero sta anche scomparendo il
sentimento più autentico della “festa dei morti”.
Allora, prima che se ne perda definitivamente la memoria,
attraverso questa manifestazione si è voluto tentare
un recupero innanzitutto sul significato e sul valore simbolico
di questi innocenti e variopinti pupi all’interno di
una particolare e importante dimensione dell’identità
siciliana. Tentare di effettuare un preciso riferimento sulla
cultura e sul più antico sentimento religioso della
nostra isola. Perché quello che si riscontra con la
festività dei morti è quello di ritrovarsi davanti
ad un esclusivo patrimonio storico culturale. Infatti, in
quasi tutte le parti del mondo, comprese le altre regioni
d’Italia, i defunti si commemorano… soltanto.
Noi invece, oltre a commemorarli, li “festeggiamo!”.
Secondo le culture dominanti, festeggiare i morti è
qualcosa di scandaloso. Per la Sicilia è la testimonianza
più viva di una ricchissima appartenenza storica. Festeggiare
i morti significa per il popolo siciliano poter vantare una
grande storia alle spalle, una storia che ci lega direttamente
alle più grandi civiltà del passato. La festa
dei morti è dunque per noi un preziosissimo “fossile
vivente” che parla in sicano, siculo, elimo, fenicio,
greco e soprattutto latino. Sicuramente, la Sicilia non ha
avuto l’esclusiva del rapporto e della convivenza con
queste antiche civiltà; ma può essere orgogliosa
di possedere un’originale forza sincretistica che le
ha permesso, nel corso delle epoche, di assimilare le nuove
culture, interiorizzarle, senza mai disfarsi completamente
delle vecchie. Questo particolare carattere, definito successivamente
“gattopardiano”, ha trovato la sua massima espressione
durante la conversione del mondo occidentale al cristianesimo.
In Sicilia, la dottrina cristiana è stata felicemente
tradotta attraverso le principali credenze e pratiche religiose
esistenti da secoli nell’isola. I suggestivi riti della
“settimana Santa”, i numerosi e sentitissimi culti
di santi e soprattutto di sante e la “festa dei morti”,
rappresentano la più evidente testimonianza di questa
peculiare forza sincretistica presente, da sempre, nel carattere
e nella natura dell’identità siciliana.
Il principio base che ha sostenuto l’immaginario delle
culture antiche e che ha ispirato la nostra “festa dei
morti” era quello di credere fermamente all’esistenza
di un legame profondo tra la vita e la morte. Eraclito, filosofo
del “Logos”, teorizzava la coincidenza degli opposti,
l’armonia nascosta. La morte veniva quindi vissuta con
uno spirito sostanzialmente sereno e fiducioso. La componente
di paura, di ansia e di mistero che ineluttabilmente l’evento
comunicava, veniva gestito con un autentico sentimento di
umana naturalezza. La cultura moderna invece ha via via strappato
questo legame naturale che univa la vita e la morte e ha relegato
quest’ultima in una dimensione così lontana,
da viverla oggi come un vero e proprio tabù. Oggi la
morte non la si nomina neanche! Per riferirsi ad essa si ricorre
ad innumerevoli ed artificiosi eufemismi.
Una delle testimonianze più antiche del carattere gioioso
e festoso di commemorazione dei defunti in terra di Sicilia
ce la offre Virgilio nel V libro dell’Eneide. Enea aveva
salvato il padre Anchise dalle fiamme di Troia portandoselo
sulle spalle fino alle navi. Ciononostante, nella lunga tappa
siciliana, a Drepanon, l’odierna Trapani, Anchise muore.
Enea, in occasione del primo anniversario della morte del
padre organizza nella piana, proprio sotto il monte Erice,
oltre alle preghiere e ai sacrifici, i “Ludi”:
spettacolari e festanti giochi sportivi rinforzati da banchetti
e libagioni.
Ma perchè nella nostra tradizione i morti si festeggiano
il 2 novembre e perchè portano i regali ai bambini?
Quasi tutti i riti delle tradizioni popolari sono legati al
ciclo della natura e al trascorrere delle stagioni. Nella
cultura contadina di sempre, l’inizio di novembre era
considerato la morte definitiva della bella stagione. In questi
giorni si spengono anche gli ultimi sussulti di vita; i semi
giacciono "sepolti" nei campi; le foglie si staccano
dai rami; gli animali fuggono o si abbandonano ad un sonno
profondo simile alla morte. Arriva l’inverno con il
suo freddo e soprattutto con il suo buio. E così, come
la natura percepisce la presenza dell’energia opposta
a quella vitale, così l’uomo pensa che questo
sia il momento di maggiore vicinanza con la dimensione della
morte. Il momento quindi più propizio per i defunti
per scavalcare le mura di cinta che li separano dalla vita
e tornare, anche solo per una notte, a far naturalmente visita
ai propri cari. I defunti del 2 novembre non sono degli zombi!
E neanche dei fantasmi! Sono spiriti resi “vivi”
dalla forza della rievocazione. Questa presenza materializzata
provoca innanzitutto la gioia del “rivedersi”
e non c’è assolutamente tempo e spazio per i
rimpianti e le tristezze. Si valorizza e si amplifica l’istante,
la felicità dell’essersi rivisti. E la maniera,
da sempre, per onorare l’eccezionalità e la straordinarietà
dell’unione è mangiare insieme, condividere l’atto
più vitale dell’esistenza che è il nutrirsi.
Abbiamo documenti che attestano che fino al IV-V secolo, durante
la giornata del 2 novembre, erano molto diffusi i banchetti
organizzati direttamente nei cimiteri. L’idea e la convinzione
forte del potere d’unione che ha il cibo è rappresentata
nella sua forma più eclatante dalla sacra presenza
del pane e del vino nella celebrazione della messa. Mangiare
l’ostia e bere il vino significa nutrirsi del corpo
e del sangue di Cristo, significa entrare in “comunione”
con il divino! L’altare è un tavolo e i fedeli
sono dei commensali speciali: da 2000 anni la messa ripropone
e rivive la cena di Gesù. I morti nel portare ai propri
parenti i cibi prelibati (martorana, biscotti a forma di ossa,
pupi di zucchero, ramette di miele…) “materializzano”
con gioia il proprio spirito e donandosi favoriscono la cena
rituale e il raggiungimento della loro “comunione”.
Infatti, a Palermo (luogo dove sembra sia nata la tradizione
di regalare le statuette di zucchero per la “festa dei
morti”) i pupi di zucchero si chiamano “pupaccena”.
Il suffisso “cena” sta ad indicare emblematicamente
il carattere rituale delle statuette di zucchero. Non pupi
qualsiasi, ma “pupi di e per la cena-sacra”, da
mangiare con uno specifico stato d’animo che apre le
porte del rito e della spiritualità.
Salvatore Farina
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